KARATEDO

a cura del M° Lucio Maurino – Le origini del Karate hanno radici antichissime, in particolar modo al Kenpo cinese, al Kenjutsu / Jujutsu giapponese,  e sono fortemente legate al combattimento per la sopravvivenza poiché lo scopo primario del Karate era quello di difendersi dai malintenzionati mettendoli fuori combattimento con un solo colpo o movimento. Per ottenere ciò era indispensabile la conoscenza dei punti vitali (Kyusho), la precisione e la giusta concentrazione di forza nei colpi.

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Tuttavia il Karate, riconosciuto in maniera ufficiale ad Okinawa nel 1936 quando è stato collocato dalla Dai Nippon Butokukai nel novero delle 12 arti del BUDO giapponese, viene modificato nelle sue varie strategie e tecniche marziali che hanno finito col modificare i suoi brutali metodi si supremazia marziale in sistemi di allenamento la cui metodologia ha come obiettivo finale il miglioramento dell’individuo. Per tali ragioni, l’obiettivo primario del KARATEDO è diventato “Ricercare un miglioramento continuo della propria personalità nell’inevitabile conflitto del vivere sociale”.

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La realizzazione di tale obiettivo passa inevitabilmente attraverso una pratica che va necessariamente svolta considerando tre livelli di studio:

·      SHIN – Interiore (Mentale e Spirituale)

·     GI – Tecnico (Organizzazione dei segmenti corporei, nello spazio e nel tempo, finalizzata ad uno scopo)

·     TAI – Fisico (Armonizzazione delle nostre azioni – contrazione ed espansione – nel tempo e nello spazio).

Infatti, così come le altre arti marziali appartenenti al BUDO che seguono la SHINKAKU NO MICHI (La Via dei Principi Etici e Morali), il Karatedo ha come comune denominatore lo studio del pianeta uomo e le sue capacità psico-fisiche in armonia con le leggi universali. Migliorare solo la tecnica senza migliorarci come individui significa non aver compreso la Via (DO): vivere in armonia con quello che ci circonda, e quindi coltivare una piena realizzazione personale e sociale.
Ciò rappresenta la filosofia delle Arti Marziali giapponesi legate al BUDO, anticamente studiate attraverso tecniche di meditazione e movimenti del corpo predefiniti (KATA). Questo è stato perpetuato fino ad oggi dai grandi Maestri.
Sia nella metodologia che nel programma tecnico non devono esistere competizioni di sorta, ma bisogna basarsi essenzialmente sul senso del rispetto di sé e degli altri. Questo concetto deve essere garantito dall’etichetta (REIGI o REISHIKI) e dalla gerarchia che fanno del Karatedo una scuola di impegno fisico, psicologico e morale per eccellenza dove vengono esaltate non la supremazia sugli altri (competizioni) ma quelle qualità insite in ogni individuo che sono la costanza, l’impegno e la determinazione.
I passaggi di grado indicano il progressivo miglioramento degli allievi e, allo stesso tempo, li aiutano a prendere conoscenza delle proprie qualità e dei propri limiti. Gli esami, intesi in tal senso, sono quindi un sistema non tanto di valutazione tecnica ma un mezzo per meglio conoscersi attraverso una sincera autocritica. Il senso della prova d’esame, va quindi al di là del fatto di essere ammessi ad un grado superiore o meno, ma deve aiutare a migliorare passo dopo passo quella “Via” che in definitiva è la nostra stessa esistenza. Lo studio della tecnica, l’abilità e la maestria sono solo il mezzo attraverso il quale cerchiamo di migliorarci come individui.

La pratica del Budo è un processo di realizzazione che dura tutta una vita. Ognuno deve applicare i valori appresi nel Dojo alla vita di ogni giorno, questa è la Via (DO). Insegnare questo stile di vita è un lungo viaggio che trascende ogni cultura, religione o orientamento politico, e che rappresenta un contributo prezioso per tutto il genere umano.

Oggi le Arti Marziali sono integrate nello Sport come attività educative e formative, e sono praticate anche per migliorare la forma fisica, per questo motivo hanno riscosso una vasta popolarità in tutto il mondo. Tuttavia è importante sottolineare che l’essenza del KARATE-DO, “La Via della mano vuota” (KARA = VUOTO, TE = MANO, DO = VIA), risiede nella ricerca profonda della sua forma d’arte, dove in ogni tecnica si utilizza il corpo nel suo insieme, per raggiungere elevati livelli di efficacia, precisione ed essenzialità coma la lama di una katana (spada giapponese).

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La tecnica, ripetuta giorno dopo giorno, è quindi non solo strumento per affinare abilità fisiche e mentali, ma una pratica che aiuta ad un profonda comprensione di se stessi e degli altri, con un approccio olistico, tipico delle discipline marziali dove si richiede massimo controllo delle proprie emozioni e limpido stato d’animo, ossia unione tra “mente, corpo e spirito,” su cui poggia la tradizione del BUDO giapponese.
A differenza del periodo in cui si diffuse da Okinawa a tutto il Giappone, e poi in tutto il mondo, oggi il Karate-Do si è sempre più orientato verso la promozione delle competizioni (principio della “Tecnica della Vittoria”). L’idea fondamentale del combattimento (KUMITE) e delle forme (KATA) di Karate, come sport moderno, risiede in quanti punti vengono realizzati in un certo tempo o in quanto una “performance” possa essere migliore di un’altra. Ciò comporta determinare un vincitore, il ché rende facile per lo spettatore la comprensione di questo processo. Tuttavia questo aspetto presenta un evidente dilemma: la ricerca dell’Arte attraverso la cultura tradizionale o la pratica del Karate come Sport?

Considerando le finalità, gli obiettivi, la didattica strutturale dell’insegnamento e la pratica, si può desumere che il perseguimento di uno di questi scopi tende ad escludere l’altro. Proprio per questa ragione è di notevole difficoltà il connubio di entrambi gli aspetti. Tuttavia è importante ricordare che il segreto per la realizzazione della tecnica perfetta nell’arte del Karate, si trova in una pratica intensa e continua delle basi (KIHON = Fondamentali del Kata/Kumite), dei modelli predefiniti di combattimento (KATA = Forme), delle loro analisi e applicazioni (BUNKAI e GOSHIN-JUTSU) e del combattimento libero (KUMITE), che abbinati a creatività, ricerca e introspezione forniscono strumenti indispensabili per un proficuo apprendimento dell’arte del Karate.

KATA
Kata (giapponese o , traducibile con forma, modello, esempio) nelle arti marziali indica, sotto il profilo tecnico, una serie di movimenti preordinati e codificati che rappresentano varie tecniche e tattiche di combattimento evidenziandone i principi e le opportunità di esecuzione.
Sotto un profilo interno, invece, la pratica del kata mostra la capacità del praticante di vivere il momento, di far vibrare le corde più profonde del proprio corpo esercitando un autocontrollo sulla respirazione e ricercando una efficacia nelle tecniche, armonizzando tutto il kata in un qualcosa di più che un semplice schema.
I kata esistono nel Karate, nel Judo, nel Jujitsu, e all’interno della pratica di diverse scuole antiche di armi giapponesi come Iaido (via dell’estrazione della spada giapponese), Jodo (bastone di 128 cm utilizzato contro la spada) e Naginata (alabarda). Il kata preserva, quindi, una tradizione tecnica e allo stesso tempo un
a tradizione culturale.

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L’esercizio del kata non si pratica solo nelle discipline marziali, ma in tutte quelle arti tipiche del Giappone che abbiano come fine il dō (), la “via”: Jūdō (via della cedevolezza), ken-dō (via della spada), Kyudo (via dell’arco), Aikido (via dell’armonia), ma anche Shodo (via della calligrafia), Kado (via della composizione floreale) e Sado (via della cerimonia del thè). In tutte queste discipline ci si propone di fondere, attraverso la respirazione, le componenti fisica e mentale eseguendo una predeterminata sequenza di gesti (tecnica) per raggiungere una più elevata condizione spirituale.
Ogni kata è composto da una serie di movimenti che ne costituiscono la caratteristica evidente, ma presenta altri elementi che sfuggono alla comprensione più immediata: i maestri che li hanno creati hanno spesso volutamente mascherato il significato di alcuni passaggi per evitare che altri se ne impadronissero. Per esempio i kata vennero mimetizzati in danze innocue, nel periodo in cui ad Okinawa vigeva la proibizione di praticare le arti marziali.

 

KUMITE
Il kumite è una delle tre componenti fondamentali dell’allenamento nel Karate, assieme a kata (con relative applicazioni) e kihon (studio dei fondamentali), e consiste nel combattere con un avversario in diverse modalità.
Il termine giapponese kumite viene tradotto con la parola combattimento, però tale termine è incompleto, cioè privo degli elementi compresi nel concetto di kumite. Kumite si compone della parola kumi, che significa “mettere insieme”, e della sillaba te, che significa “mano”. Per kumite si intende quindi l’incontrarsi con le mani: nel confronto reale come in quello di palestra è necessario un avversario. Lo scopo del vero combattimento è quello di abbattere l’avversario, quello del kumite è la crescita reciproca dei praticanti.

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 Il kumite presuppone due fasi ben distinte: l’apprendimento delle tecniche dal punto di vista formale e la loro applicazione. L’importanza che riveste la forma (kata) in funzione del combattimento è quindi fondamentale, perché racchiude le basi del karate. La filosofia del karatedo impone di migliorarsi continuamente per ricercare la massima padronanza tecnica e mentale, così da raggiungere equilibrio interiore, stabilità, consapevolezza. Per allenare il combattimento, nel senso del karate-do, vengono studiati diversi tipi di kumite fondamentale: combattimento a cinque passi, a tre passi, a un passo, semilibero, libero, etc..

GOSHIN JUTSU

Nella sua forma più antica denominata GOSHIN JUTSU, il Karate è specificamente studiato per la difesa personale. La parola goshin è composta da ‘GO’, tradotto come proteggere o difendere e ‘SHIN’, tradotto come corpo, sé stesso, uomo, mentre JUTSU significa arte, metodo, tecnica.

E’ la forma concreta ed essenziale del Karate inteso come metodo di combattimento totale in cui si impara a controllare e neutralizzare un attacco di uno o più aggressori e ad eseguire la tecnica più appropriata con la massima potenza nel lasso di tempo più breve.

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E’ necessario quindi la conoscenza dell’anatomia del corpo umano e dei vari punti sensibili e vitali, eredità della medicina orientale, che permettono anche a persone non particolarmente dotate fisicamente di poter prevalere contro avversari più forti e prestanti.
La pratica e l’allenamento trasformano le varie parti del corpo in armi che possono consentire la supremazia in un combattimento. Quando l’obbiettivo principale è la neutralizzazione del nostro avversario, si ricorrerà infatti ad ogni possibile parte del corpo con cui si renda necessario colpire il nostro aggressore.
Si parla di aggressore perché, per quanto nel Karate siano previste tecniche per attaccare, non rientra nello spirito e nella filosofia del Karateka colpire per primo ma solo se aggredito (principio: “Karate ni sente nashi”).
Il Goshin Jutsu, anche considerando le differenti doti fisiche, tecniche e psicologiche di ogni individuo, implica necessariamente una pratica costante nel tempo che serve a stimare la propria zona di influenza, il concetto di distanza e tempo, l’uso degli spostamenti e soprattutto il controllo, tutti punti fondamentali nello studio della difesa personale.
Non bisogna dimenticare, però, che il proprio movimento è la manifestazione del proprio spirito. Per tale ragione una pratica corretta deve prevedere lo studio di diversi aspetti tra loro interdipendenti come il rilassamento fisico e mentale, l’uso corretto della respirazione (kokyu), la visualizzazione, la concentrazione, la meditazione, gli spostamenti (ashi-sabaki, tai-sabaki), le cadute (ukemi), le posizioni (tachi-kata), le tecniche di percussione (atemi waza – tsuki, uchi, hiji, keri), la conoscenza delle zone bersaglio e dei punti vitali (kyusho), le tecniche di parata (uke-waza), l’allenamento all’impatto (makiwara, scudo, colpitori, sacco, ecc.), gli squilibri (kuzushi-waza), gli proiezioni (nage-waza), leve articolari (kansetsu/tuidi-waza), le evasioni e controtecniche (gyaku-waza), il controllo e le immobilizzazioni (katame-waza), gli strangolamenti/soffocamenti (shime-waza), la lotta a terra e la sottomissione (ne-waza), la tattica e la strategia del conflitto (heiho), l’intenzione che guida l’energia (kime-waza), la dinamica delle tecniche, la fluidità e la continuità nell’azione (renraku/renzoku-waza), la coordinazione, l’equilibrio, la mobilità articolare e la flessibilità.
Solo così il Karatedo diventa una via di autorealizzazione, in cui il corpo, la mente e lo spirito si fondono in armonia con la natura e il fluire dell’energia dell’Universo.

 

NEL KARATE UN PUGNO POTENTE DIPENDE DAL CERVELLO

By Sam Wong – 15 Luglio 2012 – (Traduzione a cura di Dojo Karatekai Caserta) – Articolo originale (English)

Hirokazu Kanazawa Choku Zuki

Hirokazu Kanazawa Choku Zuki

Attraverso un protocollo di test a scansione alcuni ricercatori hanno rivelato caratteristiche distintive nella struttura del cervello di esperti di Karate che si correlano con l’abilità di eseguire i pugni.

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Sono state rivelate, infatti, caratteristiche distintive nella struttura del cervello di esperti di Karate che potrebbero essere collegate alla loro capacità di eseguire i pugni con una grande potenza da distanza ravvicinata. I ricercatori sono dell’Imperial College di Londra e UCL (University College London) e hanno trovato differenze nella struttura della materia bianca – responsabile dei collegamenti tra le diverse aree del cervello – attraverso un test di abilità nell’eseguire i pugni paragonando esperti cinture nere e principianti.

Gli esperti di Karate sono in grado di generare forze estremamente potenti con i loro pugni, ma come questo accade non è ancora chiaro. Precedenti studi hanno provato che la forza generata in un pugno di Karate non è determinato dalla forza muscolare ma da fattori legati al controllo del movimento dei muscoli da parte del cervello.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Cerebral Cortex, ha esaminato le differenze nella struttura del cervello tra 12 praticanti di Karate con un grado di cintura nera e una media di 13,8 anni di esperienza nella pratica e 12 soggetti di controllo della stessa età che si sono esercitati regolarmente ma non hanno mai avuto alcuna esperienza nel campo delle arti marziali.

I ricercatori hanno testato con quanta forza i soggetti colpiscono quando eseguono un pugno, ma per fare un paragone più attendibile hanno ristretto il test  dei non-esperti con la modalità di colpo a corto raggio – distanza di 5 centimetri. I soggetti indossavano marcatori infrarossi sulle braccia e sul tronco in modo da catturare la velocità dei loro movimenti .

Come previsto, il gruppo di Karate ha dimostrato di colpire in maniera più potente. La potenza dei loro pugni diminuiva con il trascorrere del tempo: la forza che generavano era correlata alla sincronizzazione tra  movimento dei polsi e delle loro spalle.

Le scansioni cerebrali hanno mostrato che la struttura microscopica in alcune regioni del cervello differiva tra i due gruppi. Ogni regione del cervello è composta di materia grigia, consistente i principali corpi di cellule nervose, e di materia bianca, che è principalmente costituita da fasci di fibre che trasportano segnali da una regione all’altra. Le scansioni utilizzate in questo studio, chiamate tensori di diffusione per immagini (DTI), hanno rilevato differenze strutturali nella materia bianca di alcune aree del cervello, chiamate cervelletto e corteccia motoria primaria, note per essere coinvolte nel controllo del movimento. Queste aree sono raffigurate di seguito in bianco.

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Le differenze misurate dal DTI nel cervelletto sono state correlate con la sincronia dei movimenti del polso e della spalla dei soggetti mentre eseguivano dei pugni. Anche il segnale DTI è stato correlato con l’età in cui gli esperti di Karate hanno iniziato ad allenarsi e con il loro tempo totale di pratica nella disciplina. Questi risultati suggeriscono che le differenze strutturali nel cervello sono collegate alla capacità delle cinture nere di eseguire i pugni.

La maggior parte della ricerca sul modo in cui il cervello controlla il movimento si è sempre basata sull’esame di come le malattie possono compromettere le capacità motorie” – ha dichiarato il dr. Ed Roberts, del Dipartimento di Medicina presso l’Imperial College di Londra, che ha condotto lo studio – “Abbiamo attuato un approccio diverso, cercando di capire cosa permette agli esperti di svolgere meglio le prove di abilità fisica rispetto ai principianti“.

Le cinture nere di Karate sono riuscite a coordinare ripetutamente la loro azione di pugno ad un livello  più efficiente dei principianti. Pensiamo che tale abilità potrebbe essere correlata ad una più fine attività delle connessioni neurali nel cervelletto, permettendo loro di sincronizzare i movimenti del braccio e del tronco con estrema precisione”.

Stiamo solo iniziando a capire il rapporto tra struttura e il comportamento del cervello, ma i nostri risultati sono coerenti con le precedenti ricerche che mostrano quanto il cervelletto giochi un ruolo fondamentale nella capacità di produrre movimenti complessi e coordinati”.

Ci sono diversi fattori che possono influenzare il segnale DTI, per tale ragione non possiamo dire esattamente a quali caratteristiche della sostanza bianca queste differenze corrispondano. Ulteriori studi che utilizzano le tecniche più avanzate ci daranno un quadro più chiaro”.

Lo studio è stato sostenuto dal Medical Research Council (MRC), dal Wellcome Trust, e dall’Istituto Nazionale per la Salute della Ricerca (NIHR) Centro di Ricerca Biomedica presso l’University College London Hospitals NHS Foundation Trust e University College di Londra.

Riferimenti:

RE Roberts et al. “Differenze individuali nella coordinazione motoria di esperti associata alla microstruttura della sostanza bianca nel cervelletto“. Cerebral Cortex , 15 agosto 2012 . doi : 10.1093/cercor/bhs219

1° INCONTRO – KARATE-DO e dintorni…

Sabato 22 marzo 2014 – San Leucio, (Caserta)Lezione con il M° Lucio Maurino – c.n. 5° dan FIJLKAM – Un momento di condivisione e approfondimento dei principi che hanno caratterizzato gli stili piu’ diffusi del Karate moderno: oggi, per gli avanzati, lezione dedicata al M° Hironori Otsuka, fondatore del Wado-Ryu, con kihon kumite e idori.

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«Quando pratichi il Karate come arte marziale, non significa solo impegnarti, ma anche impegnare te stesso ad un certo modo di vivere che include allenamento agli ostacoli della vita e trovare la via per un’esistenza ricca di significati per tutto il tempo che ti è concesso su questa terra. Attraverso questo modo di vivere potrai raggiungere il Wa (pace interiore) e vivere la pienezza della vita. Bisogna trovare il Wa attraverso la pratica, una volta entrato nel Wa, troverai molte altre vie per crescere e migliorare il tuo modo di vivere. Ciò ti aiuterà a migliorare in tutti i settori della tua vita».

(cit. Hironori Otsuka – fondatore del Karate Wado Ryu)

Gruppo Avanzati

Gruppo Principianti

COME SI IMPARA UNA TECNICA: IL RUOLO DEI NEURONI SPECCHIO

di Cesare Bertone (Centro di Scienza Cognitiva – Università e Politecnico di Torino)

Una parte delle scoperte più importanti per l’umanità è avvenuta per caso. E’ rimasta famosa quella della penicillina da parte di Fleming, ma i casi sono davvero molti. Quella che  qui ci interessa è quella dei neuroni  specchio, avvenuta all’inizio degli Anni Novanta da parte dell’équipe di neuro-scienziati dell’Università di Parma coordinati da Giacomo Rizzolatti.

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I ricercatori avevano collocato elettrodi nella corteccia frontale inferiore di un macaco per studiare la risposta di neuroni specializzati nel controllo dei movimenti della mano, come il raccogliere o il maneggiare oggetti. Durante ogni esperimento era registrato il comportamento di singoli neuroni nel cervello della scimmia mentre le si permetteva di accedere a pezzetti di cibo. L’aneddotica racconta che durante una pausa degli esperimenti, uno dei ricercatori afferrò una banana alla presenza della scimmia ancora collegata alla macchina e udì il tipico rumore gracchiante dei neuroni che scaricano. Come poteva essere accaduto questo, se la scimmia non si era mossa?

In un primo momento gli sperimentatori pensarono si trattasse di un difetto nelle misure o un guasto nella strumentazione, ma tutto risultò a posto e la risposta del neurone si ripeté non appena fu ripetuta l’azione di afferrare. Ci si rese così conto che una parte dei neuroni motori situati in quella particolare regione del cervello non soltanto scaricava quando la scimmia afferrava un oggetto, ma anche quando la scimmia semplicemente vedeva qualcun altro effettuare un’azione simile. Per quel tipo di neuroni motori, era cioè indifferente se a fare l’azione era la scimmia, lo sperimentatore o un’altra scimmia: essi rispondevano comunque. In virtù di questa loro caratteristica, i ricercatori decisero di chiamare questi neuroni mirror neurons e cioè neuroni specchio, neuroni che rispecchiano il comportamento osservato.

La scoperta ebbe giustamente una risonanza mondiale e Rizzolatti è da alcuni anni in corsa per il Premio Nobel: se fosse stato un ricercatore americano, sarebbe stato probabilmente già premiato. Nel 1995 la stessa équipe di neuro-scienziati fornì la prima dimostrazione dell’esistenza di un sistema analogo nell’uomo e da allora il sistema mirror è stato invocato per spiegare una varietà di fenomeni, dall’empatia all’evoluzione del linguaggio, alla sofisticata capacità di comprendere e decodificare le intenzioni altrui. Solo recentemente si è iniziato a studiare il ruolo che  questi neuroni potrebbero svolgere nell’apprendimento. In effetti, noi impariamo una quantità enorme di gesti, comportamenti e movimenti semplicemente osservando altri mentre li eseguono. Che si tratti di usare una pinzatrice o girare la chiave nella toppa, non abbiamo bisogno che qualcuno ci spieghi come fare: ci basta guardare quello che fa.

Gli educatori di ogni tempo hanno sempre insistito sul valore educativo dell’esempio e, nella saggezza popolare, si è sempre affermato che un comportamento corretto ha più valore, nell’educazione, di cento discorsi. Non si sapeva però perché l’esempio avesse un forza così grande nell’apprendimento. La scoperta dei neuroni specchio ne svela il meccanismo. Noi replichiamo, dentro il nostro cervello, le azioni e i gesti che osserviamo fare agli altri, anche quelli che disapproviamo. Imitiamo (il nostro cervello imita) quello che vediamo fare: se non eseguiamo l’azione che osserviamo è soltanto perché meccanismi inibitori intervengano a bloccare l’azione, senza evitare, peraltro, che il nostro cervello la simuli internamente. Si comprende così bene perché la corretta esecuzione del gesto tecnico sia importante nell’insegnamento delle nostre discipline e perchè la spiegazione possa essere integrativa ma non sostitutiva del movimento esemplare. Nell’osservare il Maestro mentre insegna o applica una tecnica, l’allievo attiva gli stessi gruppi muscolari che il Maestro impiega nell’eseguire la tecnica e questo facilita la successiva esecuzione da parte  dell’allievo. Se la dimostrazione della tecnica è inefficace, la riproduzione sarà inefficace, indipendentemente da ciò che il Maestro possa aver detto prima, durante o dopo l’esecuzione. Pur ascoltando le parole corrette del Maestro, l’allievo avrà infatti simulato un gesto errato.

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Tada Hiroshi Shihan – 9° dan di Aikido

Certamente l’educazione di un atleta è cosa più complessa dell’apprendimento del gesto tecnico e implica dinamiche psicologiche articolate. Il Maestro trasmette, attraverso la parola, valori e regole che, oltre alla vita sportiva del giovane, sono preziosi per il vivere sociale e per la convivenza positiva in una società bene ordinata. Egli inoltre trasmette, con il suo comportamento, un modo implicito di agire che influenzerà profondamente il giovane nei suoi rapporti con gli altri. Tuttavia, per quanto riguarda il gesto tecnico, è fondamentale che il Maestro ponga la massima attenzione sulla sua esecuzione e non si accontenti mai del “più o meno”. Meglio quindi rimandare la dimostrazione di una tecnica che insegnarla male. Correggere un comportamento sbagliato è sempre più difficile che impararne uno nuovo.

Queste considerazioni mettono in luce l’importanza dei corsi di aggiornamento: è importante che i Tecnici continuino ad esercitarsi ed ad aggiornarsi e che il livello dei corsi di aggiornamento sia il più alto possibile. Se il Maestro infatti non pratica realmente e non si prepara, se non è capace di trasmettere in modo corretto ed efficace le tecniche, egli non soltanto non svolge il suo compito educativo, ma danneggia l’allievo. Osservando il Maestro, l’allievo simula e finisce per imparare una tecnica sbagliata. La natura stessa della funzione educativa del Maestro risulta così compromessa. L’immagine del Tecnico che assiste annoiato al corso di aggiornamento obbligatorio, che è poco motivato, che si muove un po’ faticosamente e che evita l’impegno, è quella che viene messa in discussione alla luce di quanti si sa ora dell’apprendimento motorio.

Sakumoto Tsuguo Shihan – 8° dan di Karate Riuei Ryu di Okinawa

Come è importante l’esempio del Maestro, così è importante per l’evoluzione tecnica dell’atleta l’esperienza a livello nazionale ed internazionale. Vedere altri atleti evoluti, altri tecnici, incontri di alto livello, (unito, ovviamente, al confronto e al lavoro pratico con altri) fa infatti progredire sensibilmente le capacità tecniche e competitive degli atleti. Guardare non è una perdita di tempo, anche perché ciò che vede un atleta non è ciò che vede uno spettatore che non abbia mai praticato quella disciplina. Studi recenti hanno infatti dimostrato che il coinvolgimento del sistema mirror dipende dall’esperienza: tanto più l’osservatore è esperto, tanto più il suo sistema motorio è coinvolto nell’osservazione dell’azione. Sintetizzando, possiamo quindi dire che mentre un osservatore non esperto guarda soltanto con gli occhi, un osservatore che abbia esperienza diretta dei movimenti che vede eseguire, guarda col corpo. E curioso come una ricerca di laboratorio, apparentemente lontana dalle nostre discipline e dalle esigenze ad esse correlate, possa avere ricadute così importanti da indurci a ripensare il nostro stesso modo di insegnare e aggiornarci. La scimmia di Rizzolatti, senza saperlo, ci costringe così a migliorare la nostra preparazione e a svolgere il nostro insegnamento con maggiore attenzione e accuratezza, a diventare cioè Maestri migliori.

Letture consigliate

G. Rizzolatti, C. Sinigaglia (2006).
So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio. Raffaello Cortina Editore